Giacinto Melchiori, papà di Paola ci ha lasciato


Lo ricordiamo affettuosamente attraverso un testo del figlio di Paola,

Andrea Tognoni



Il monte Pelmo visto da Pescul


Ho imparato un sacco di cose da mio nonno. Immagino che sia solo ora che me ne accorgo perchè è quando una persona muore che si fanno i conti con quello che ci ha dato, con quello che si è riusciti a ricevere, e soprattutto con quello che abbiamo potuto dargli. Ultimamente il nonno era lontano, a volte assente, quasi spaurito dal deteriorarsi del proprio fisico. Come non esserlo, lui poi, che bisognava legarlo per farlo stare fermo. Negli ultimi tempi il nonno si stava preparando per andarsene, e questo sicuramente lo sanno meglio di me le persone che piú gli sono state vicino, almeno fisicamente, negli ultimi anni. Facevo fatica a vederlo cosí, cosí diverso da quella foto in cui mi portava sul manubrio della bici, con la sua coppola , troppo grande, in testa, che mi faceva sembrare un bambino alla Oliver Twist. Mi faceva tristezza vederlo poco reattivo, inattivo, lui che mi aveva sempre spronato a fare di più, a muovermi, a farlo meglio. Eppure anche in quest'ultimo periodo ho imparato qualcosa da lui. Ho imparato la dolcezza, piena, d' una vita intera che ha fatto il suo tempo, la cruda e triste tenerezza che vedevo nei suoi occhi, a volte braccati, consapevoli ma brillanti. Come sempre. Aveva le orecchie molto grandi il nonno. In quest'ultimo periodo l'ho visto debole, stanco, come non era mai stato; non erano cose per lui, la debolezza, la stanchezza. Anche in questi momenti di tristezza, in silenzio, mi stava insegnando qualcosa. Cosa sia di preciso dipenderà solo da quello che riusciró io a mia volta a insegnare a qualcuno. Ora che se n'è andato mi viene in mente in tutti i modi in cui sará sempre vivo, attraverso le vite degli altri, nei passi che faró salendo su qualche montagna, quando finiró tutto quello che ho nel piatto, quando costruiró qualcosa o accenderó un fuoco. È stato una sacco di cose oltre ad un nonno, per me. Mi ricordo che quand'ero piccolo mi diceva sempre che dovunque lui dovesse andare ci andava di corsa, che si era abituato a farlo quand'era bersagliere, quando andava dappertutto di corsa, o in bici, o di corsa con la bicicletta in spalla.

La ricordo bene, la sua bicicletta, grande, grigia e pesante, come i chilometri che aveva percorso, con le ruote grandi e il sellino, altissimo, in cuoio. Una bellissima bici; avevo cominciato ad usarla quando lui, il nonno, aveva cambiato, dopo mezzo secolo, bicicletta. Ovviamente erano giá passati anni da quando lui stesso mi aveva insegnato ad andarci, in bici. Gli avevano detto di non andarci piú in bici, che era pericoloso caderne da una cosí alta. L'aveva preso come un suggerimento, un incoraggiamento ad usare una bici piú bassa. Era molto deciso il nonno. Mi ricordo ancora la prima volta che i medici gli avevano detto di non andare piú in montagna. Lo ricordo perchè anche quello lo aveva preso come un suggerimento, un consiglio di cattivo gusto, dato a qualcuno che non andava in montagna ma a una persona che in montagna ci tornava. Ricordo, indirrettamente per la veritá, una passeggiata sul Giau, passeggiata in cui mi aveva portato in spalla all'andata, in salita, e poi giú al ritorno. Ora, dopo tanti anni, capisco un po' meglio cosa significasse per lui la montagna. Ricordo il giorno in cui s'era sentito male tornando a casa, nella sua casa a Pescul, la casa che lui stesso s'era costruito, vicino al suo Pelmo, al compagno di tante montagne, Giova. La pressione, gli avevano detto i medici, la sua pressione, salendo, fa fare degli scherzi al cuore. Agordo, era troppo in alto. Troppo in alto ma cosí lontana, giú in basso, da tutte le cime da cui aveva visto il mondo. Il nonno non poteva piú andare in montagna, gli avrebbe fatto male; che cosa crudele e ridicola. Tornato a Treviso, malconcio e malinconico, era di nuovo in salute. Era la prima volta in vita mia che lo vedevo triste. Forse è quel giorno in cui ha cominciato a lasciarsi andare. Ricordo molte cose di mio nonno ma forse questa è una di quelle che piú mi è rimasta in mente. Uno dei suoi due grandi amori, Alba e la montagna, si allontanava.

Poco tempo dopo avrebbe cominciato ad allontanarsi anche l'altro. Viveva per amore, il nonno. Ora che non c'è piú, che se n'è andato piano, in pace, mi ritornano in mente tutte le cose che da lui ho imparato, tutta la vita che mi ha insegnato. Le cose piú piccole, semplici, che racchiudevano grandi lezioni. A partire dal non fare rumore quando bevevo, aveva cominciato a chiamarmi idrovora, fino al non lasciare il cibo sul piatto.  La prigionia, la guerra... Dalla semplice educazione alla fortuna di essere e poter rimanere in salute. Dal come piantare un chiodo a come fare il fuoco. Gli piaceva il fuoco. Spesso in inverno si sedeva a guardare il caminetto, acceso e scoppiettante, in silenzio. In alcuni di quei momenti devo avere imparato il valore della tranquillità, il piacere ipnotico di guardare una comune cosa bella, semplice, come il fuoco, mutevole e affascinante, come la luce alla sera sul Pelmo, colorato di rosa come da un impressionista, e poi giallo e azzurro e infine nero, imponente e scuro ma luccicante, magnetico, come le notti di montagna.

Anche il nonno era affascinante; ricordava vagamente Lenin, con questo pizzetto a punta che mi piaceva tocchignare da piccolo. Era affascinante, come nelle foto da giovane, con questo grande cappello da bersagliere, con tutte quelle piume, che lo aveva accompagnato, di corsa, in chissà quanti luoghi, in quanti ricordi. Ricordo che conservava ancora la sciabola a casa, questa lunghissima e pesante spada che ogni tanto mi faceva vedere, toccare. Ricordo che un giorno mi disse cha la conservava cosi da essere sicuro che nessuno la usasse più. Forse solo ora capisco cosa voleva dire. Parlava di rado della guerra, alla quale era sopravvissuto per un soffio, scampato grazie ad una provvidenziale polmonite. Quando parlava della guerra parlava sempre degli stessi episodi. Ricordo ancora il sorriso, e gli occhi che brillavano del dolore di raccontare, della gioia di poterlo fare, quando mi spiegava come nella noia della prigionia, tra denutrimento e una scodella di latta come patrimonio, aveva riscritto, assieme ai suoi compagni, l'Inferno.

Ricordo così tante cose di mio nonno che ora si affollano davanti agli occhi. Ricordo che fino a 5 o 6 anni pensavo fosse laureato in medicina, perchè tutti quanti quando ero in giro con lui lo chiamavano Dotór. Ricordo i giornali, tutti quei giornali che si siedeva a leggere ogni mattina, in pace, con calma. La calma e la pazienza, altre due cose imparate in garage, da lui, quando mi faceva lavorare coi suoi attrezzi. In quei momenti in cui mi insegnava un po' della manualità che adesso, ancora scarsa, conservo, ho imparato che se si fa qualcosa, bisogna farlo bene, con cura, con calma. Ad ogni cosa il suo tempo, e il nonno ci ha messo tanto ad andarsene. Era tanto tempo che ci stava lasciando, che stava lasciando Alba, che lei lo stava lasciando. Che amore per sua moglie. Un giorno mi disse che sapeva che l'avrebbe sposata nel momento in cui l'aveva vista per la prima volta. Mi disse che ancor prima di parlarne con lei, appena compiuti 18 anni, era andato dal di lei padre ad avvisarlo che l'avrebbe sposata. Era deciso, il nonno. Ho capito che se ne stava andando quando ha cominciato a lasciare le sue abitudini. L'aperitivo con gli amici, ogni sera, puntualissimo, alla corte di San Francesco; la passeggiata, i giri in bici, le camminate, il pranzo fuori la domenica, imbottigliare il vino, mettere a posto la legna, le grigliate in giardino, togliere l'edera, ostinata, dalla casa del vicino; il cassetto in entrata, chiuso a chiave, il penultimo in alto, dove stavano i documenti importanti. Il suo letto per i riposino dopo pranzo. I suoi attrezzi, ordinati in garage, insieme alle bici. Il dondolo, dove si sedeva a volte d'estate.

Con lui se n'è andato un luogo: il giardino non è piú fiorito, non ci sono piú le ortensie, la glicine e le primule. Il nonno me lo ricordo, quando gli avevano detto di non andare in bici, mentre faceva la spesa, con la bici con le due borse blu; me lo ricordo quando gli avevano detto di non fare lavori in casa, in cima ad una scala, a togliere un alveare dal ramo di un albero. Me lo ricordo sorridente, con questo largo sorriso, insieme ad Alba, composta e serafica, così come lo vedo ancora nelle foto, stanco e felice, in cima a qualche dolomite. Mi ricordo quando aveva cominciato a parlare della morte, a sentirsi forse un po' anziano, a mettersi dei limiti. Forse anche questo l'ho imparato da lui, osservandolo o facendomi correggere: che l'uomo, come un tutt'uno con quelli che ci circondano è l'unico limite di sè stesso.
E le abitudini, la regolarità, l'eccezionalità delle cose normali, il rispetto e l'amore per la montagna, per gli altri... quante cose che ho imparato
Forse aveva lasciato qualcosa lassù, tra la nuvole, a fare la guardia alla valle, qualcosa di eterno e infinito, ed era tornato giù con un limite, un tempo, un'età.
Ma queste, del resto, non sono cose da montagna. 

 

25-11-2010